Asociación para el estudio de temas grupales, psicosociales e institucionales

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Prevenzione e implicazione degli operatori. R. Fischetti (italiano)


PREVENZIONE E IMPLICAZIONE DEGLI OPERATORI

Raffaele Fischetti


Un progetto di prevenzione risponde all’interrogativo: come si gestisce la salute in una comunità? La gestione non è indipendente dai problemi, le conoscenze, le risorse che si hanno. La possibilità di pensare e agire sulla salute dipenderà dai livelli di flessibilità raggiunti dalla popolazione e dall’equipe che opera sul campo.
La promozione della salute favorisce le condizioni di possibilità che permettano di trasformare le modalità e il tipo di vita di una comunità. Condizioni che tendano ad un cambiamento nella gestione delle risorse attraverso la partecipazione attiva della popolazione. Si tratta, in altre parole, di agire sui problemi sociali e sulle condizioni di vita degli individui, prendendo soprattutto in esame l’incidenza delle risorse psicologiche che si utilizzano per far fronte alle condizioni abituali e quotidiane della vita. Implica mettere allo scoperto i presupposti della propria storia che intervengono inevitabilmente e in forma velata in tutte le situazioni della vita. Spinge a scoprire e interpretare i miti e i pregiudizi che appesantiscono i soggetti nella ripetizione, che impediscono la nascita di aree creative nella vita quotidiana, così come l’emergere di progetti alternativi a tutto ciò che è precostituito, perché in fondo il compito della promozione della salute è non quello di difendere un campo, ma di trasformarlo. L’intervento cercherà di produrre una mobilitazione dei sensi ossificati dell’immaginario sociale in quella determinata comunità per crearne un altro.
Insisto, se la prevenzione si presenta come promozione della salute, il nostro compito non sarà più quello di cercare in tutti i modi di evitare, di allontanare, non fare apparire tutte quelle situazioni che si presentano come segnali di futuri disagi, di future malattie, di future devianze. Si presenterà come il tentativo di ri-contestualizzare la nostra vita, di inventare nuovi sensi, di affrontare coraggiosamente la confusione che sempre mette in scacco il nostro mondo interno, di svincolare, di decostruire i discorsi ormai stereotipati, di mettere in scacco le polarizzazioni e le opposizioni binarie del nostro pensiero, facendo così cadere la naturalità e l’ovvietà della nostra vita quotidiana.
L’idea tradizionale di intendere la prevenzione come la risposta protettiva nei confronti di un rischio, s’incrocia con le recenti ricerche condotte dal filosofo Roberto Esposito nel solco della biopolitica di Foucault sulla nozione di “Immunitas”. Si tratta di ritrovare la genealogia del paradigma immunitario attraverso l’indagine di differenti assetti disciplinari -il diritto, la teologia, l’antropologia, la politica e biologia- che contemporaneamente giustappongono e collegano “immunità” e “comunità”. Entrambi i vocaboli derivano dal latino “munus”, che significa dono, ufficio, obbligo. Ma se comunità è caratterizzata dall’obbligo del dono, immunità implica l’esenzione da tale obbligo, al fine di proteggere la comunità stessa.
La preoccupazione autoprotettiva non è solo della nostra epoca, ma mai come oggi l’entità della risposta è stata così massiccia. La comunità appare oggi interamente immunizzata, nel senso che le pratiche di immunizzazione della comunità stanno diventando più importanti della stessa idea di comunità. La violenza esterna che sembra minacciare la comunità a tutti i livelli (dai flussi migratori, al contagio dell’aids o del virus dell’aviaria, dal pericolo islamico ai virus trasmessi mediante internet, dalla tossicodipendenza al terrorismo, dai movimenti giovanili alla giustizia internazionale ecc.) risulta inglobata nell’apparato immunitario destinato a reprimerla, ancora violentemente. Quest’opzione di immunizzazione preventiva ha un prezzo assai alto da pagare.
L’immunizzazione portata oltre una certa soglia finisce per negare la nostra stessa vita. Quest’eccesso di protezione spinge la nostra vita verso una sorta di claustrum, nella quale si perde non solo la libertà, ma il senso stesso dell’esistenza individuale e collettiva, della circolazione sociale che chiamiamo Comunità.
Ma allora, è possibile, è immaginabile un’idea di immunità che, senza negarne la contraddizione intrinseca, ne rovesci la semantica in senso comunitario? A partire da recenti studi di immunologia (Burnet, Moulin, Medawer, Jerne) il contagio non è qualcosa d’esterno e di successivo, ma fa parte sin dall’origine della struttura del vivente inserito nell’ambiente. All’inizio nasciamo nel corpo di un altro, in lotta con il suo sistema immunitario. Ma è proprio quel sistema immunitario con le sue complesse regolazioni interne (livelli di tolleranza) a consentire a ciascuno di nascere. L’immunità biologica non è il contrario della comunità, ma il suo complemento.
L’identità si costituisce come “alterata”. Bleger ci ha insegnato che l’identità del soggetto non è un dato definito e immodificabile, ma il prodotto sempre mutevole di interazione e discriminazione con l’esterno, con l’altro. La comunità non solo è un sistema aperto, ma si costituisce a partire dall’esterno, dal diverso, da cui man mano si differenzia. La conflittualità io-altro non è solo distruttiva, ma è, alla base, costruttiva, istitutiva dell’identità dell’io e dell’altro. Di qui forse possiamo attingere una diversa idea di immunità e prevenzione. Quello che temiamo è la nostra trasformazione nel contatto con il diverso.
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La relazione è la sintesi di una serie di lavori da me condotti e/o supervisionati in questi ultimi anni nel campo della prevenzione secondo il modello della Concezione Operativa di Gruppo.
A partire dalla descrizione di tre esperienze condotte in questi ultimi anni, una nel campo della prevenzione  della tossicodipendenza, l’altro in un liceo con genitori di adolescenti e una terza con gruppi di donne, ho enucleato una serie di problematiche che riguardano la pratica dello sviluppo della salute. Le tre esperienze sono:
- Un’equipe formata da otto operatori dei sei Ser.T e da due A. S. della Prefettura della Provincia di Mantova per rispondere alla richiesta di intervento sui giovani segnalati  dalle forze dell’Ordine per possesso di sostanze stupefacenti, ha predisposto un “Progetto di Prevenzione” con un dispositivo di lavoro composto da Primi colloqui individuali e/o familiari presso la Prefettura, 5 informazioni (gruppo, regole, famiglia, tempo libero e progetti) e cinque gruppi coordinati con tecnica operativa, colloqui di valutazione individuali e/o familiari presso i Ser.T.  L’esperienza ha ormai 9 anni di vita e una quarantina di cicli di incontri con circa 300 ragazzi.
- Un’esperienza di promozione della salute svolta in un Liceo Classico di Bassano con circa 80 genitori d’adolescenti nel 2001. L’equipe era composta da psicologi dell’ULSS, insegnanti del liceo e genitori. Il dispositivo prevedeva una plenaria iniziale, 6 informazioni (3 relazioni e 3 films sulle tematiche dell’adolescenza e della famiglia), e 6 gruppi coordinati con tecnica operativa, una plenaria finale di valutazione dell’esperienza.
 - A Marostica con la collaborazione dell’Ulss n. 3 di Bassano e l’Assessorato alla Cultura e ai Servizi Sociali del Comune di Marostica nel 2003 è stato organizzato un’esperienza di cinque incontri con donne della città. L’organizzazione prevedeva un primo momento con relazioni su tematiche legate alla donna e lettura di poesie scelte da una esperta e un secondo momento di gruppo coordinato con tecnica operativa, con il compito di elaborare l’informazione e di comporre poesie, chi ne avesse voglia.
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Mi soffermerò soprattutto sulle difficoltà che incontrano le equipe che operano nel campo della prevenzione a posizionarsi alla distanza ottimale per lavorare con la propria utenza. Abitare la distanza ottimale significa non solo evidenziare i livelli d’implicazione degli operatori inseriti in un programma di prevenzione, ma soprattutto verificare e mettere alla prova il proprio schema di riferimento. Un’idea di promozione della salute presuppone lo studio di un vincolo tra chi fa l’intervento di prevenzione (operatori) e il proprio oggetto d’intervento (utenti) in un contesto determinato.
“Vincolo” nella Concezione Operativa non è sinonimo né di relazione d’oggetto, né d’interazione. Il vincolo è una struttura complessa che include almeno due soggetti, la loro reciproca interrelazione, sia a livello d’oggetti esterni sia a livello d’oggetti interni, le loro funzioni e le loro fantasie. Mostra cioè la centralità del terzo, del fantasma nella relazione. Questa configurazione crea uno spazio emotivo e mentale che ha una sua specifica rappresentazione inconscia. Disegna la reciprocità e la sincronizzazione tra le persone, è frutto cioè di un investimento incrociato tra due. Se l’altro non risponde alle proprie aspettative (assegnazione del ruolo), il soggetto può cercare di indurre i comportamenti in modo tale che finisca per rassomigliare al proprio oggetto interno. Nella nozione di vincolo è inclusa “un’influenza”, un induzione funzionale alla relazione stessa. E’ con quest’influenza che il nostro schema di riferimento deve fare i conti.
Intervenire con un progetto di prevenzione in un territorio è soprattutto intervenire in questo vincolo. Si tratta di capire per gli operatori del settore cos’è per quella popolazione la salute e la vita quotidiana e come viene prodotta dalla comunità stessa e, contemporaneamente, si tratta di interrogarsi su che cosa gli operatori offrono alla popolazione, come sono implicati con i loro pregiudizi e i loro strumenti di lavoro nelle problematiche che si vogliono prendere in esame. Se le cose stanno così, la gestione della salute di comunità non può essere più un atto individuale, ma deve essere affrontato attraverso strumenti collettivi e attraverso la partecipazione attiva della popolazione.
Ci troviamo di fronte a due livelli di attività che si articolano tra loro, quello del livello di coscienza della popolazione e quello dello schema di riferimento degli operatori di comunità, le concezioni in gioco, le pratiche, gli strumenti. Siamo di fronte alla complessità della multicausalità dei fattori: groviglio dei meccanismi d’esternalizzazione dell’individuo nella comunità con i processi d’internalizzazione di questa nei soggetti. Le possibilità di cambiamento saranno in funzione delle flessibilità di quest’intreccio. Cerchiamo le condizioni di possibilità che un territorio può produrre per promuovere nuove forme di salute.
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Una serie di resistenze e stereotipi devono essere affrontati ed elaborati in equipe per permettere un ascolto il più possibile sgombro. Nella descrizione delle tre esperienze d’intervento nel campo della prevenzione si è evidenziato che:
a) Lavorare nel campo della prevenzione significa agire sui vincoli sociali e sulle condizioni di vita dei soggetti. Si concentra l’attenzione sulla salute e sulla vita quotidiana, sulla promozione di migliori condizioni di vita.
Nel quotidiano, inteso come il luogo della riproduzione e della ripetizione, la vita di ogni giorno diventa un meccanismo ritualistico e senza senso dell’azione. Non ci interroghiamo sulle azioni che compiamo tutti i giorni perché la vita quotidiana è il luogo della scissione tra le attività puramente ripetitive e la produzione del lavoro, del pensiero, della creatività. Si tratta invece di sciogliere la separazione tra quotidiano e non-quotidiano, tra ciò che ci appare come naturale, non modificabile e ciò che ci appare come storico, da problematizzare, degno di sviluppo e di trasformazione. Attraverso il meccanismo della naturalizzazione, perde ogni valore la ricerca di senso in questo ambito. La critica della vita quotidiana consiste nella dissoluzione del velo della familiarità. Si vive il quotidiano con una familiarità acritica, con un’illusione di conoscenza che in realtà è disconoscimento. Ciò che è familiare, vicino, immediato non diventa per questa mera vicinanza il più conosciuto. L’ovvio può essere il più sconosciuto, diceva Hegel.
b) Ma non si può fare prevenzione se non si è coinvolti nella prevenzione.  Non esiste un programma di promozione della salute che possa esser realizzato senza la collaborazione e la partecipazione attiva della Comunità. La partecipazione considerata in sé come un fattore di salute mentale tende a restituire i legami di solidarietà e permettere una posizione attiva di fronte a situazioni, che se sono vissute in forma individuale e passiva, potenziano un possibile carattere patologizzante.
Abbiamo sperimentato che uno dei pericoli per gli operatori è quello di cadere nel furor curandi. Occorre che gli utenti interessati ad un progetto di prevenzione, accompagnati dagli operatori, incontrino le cause delle proprie difficoltà, della propria paralisi o i motivi della propria sofferenza senza cadere nello stereotipo della medicalizzazione, difesa messa in atto per evitare il dolore della differenza. Bleger diceva che la psicoigiene guarda intorno e fuori della patologia. Ma nello stesso tempo non si tratta di inculcare la "buon’educazione " a nessuno, di dare una buona forma ai loro propri problemi o occultare i conflitti indesiderati. Non è importante quello che gli operatori trasmettono o le soluzioni che si offrono, ma quello che la comunità interiorizza, interpreta e trasforma. Non abbiamo da insegnare loro niente su come si vive, cercheremo di far loro compagnia, un "stare con loro", e insieme scopriremo i fantasmi che li incalzano. Lo spazio del gruppo, loro offerto, sarà una buona occasione per entrare in comunicazione. Stiamo in questo caso enunciando il grado di implicazione dello schema di riferimento di chi porta avanti un intervento di prevenzione, il posto da dove si osserva, si pensa e s’interviene.
La salute comunitaria e la gestione della salute comunitaria non sono problemi solo per esperti o tecnici. Senza la partecipazione della stessa popolazione, i progetti di promozione della salute restano astratti e in ogni caso infruttuosi. La popolazione ha il compito di porsi come agente attivo e responsabile delle proprie condizioni di esistenza In ogni caso è indispensabile tener conto delle deformazioni e dei pericoli che possono derivare da una promozione mal condotta, perché si possono favorire atteggiamenti paranoidi o ipocondriaci nella popolazione stessa.
c) Chi avvia un programma di prevenzione deve farsi carico di valutare i propri pregiudizi, le difese, la paura del cambiamento. In sintesi, come fare, per quanto riguarda l’equipe, per evitare di creare un intervento che punti a mantenersi nell’ambito del controllo sociale (assumere cioè il mandato sociale). Come fare per evitare che l’intervento incoraggi la dipendenza, assumendo ruoli e compiti che non ci spettano. E nello stesso tempo, come fare per evitare la tentazione di cadere in un intervento di psichiatrizzazione e\o di educazione. Un ulteriore problema nasce dal fatto che i contatti stabiliti con il territorio (Comuni, Scuole, Autorità Locali, famiglie, Ser.T., Servizi Psichiatrici, Polizia, Carabinieri) comportano la necessità di tentare di dissolvere e trasformare un certo numero di loro “pre-giudizi” sul nostro intervento, attraverso contatti e chiarimenti (importanza dell’analisi della domanda e dei primi colloqui).

Pensare alla produzione della salute significa per l’équipe pensare e promuovere nuovi tipi d’esperienze da attuare nella gestione della vita quotidiana. La salute si presenta come una nuova esperienza, un’apertura al differente anche per gli operatori. Ostacoli e resistenze si presentano in un’equipe di lavoro con il compito esplicito di ricercare sulla propria modalità di lavoro. La ripetizione, la riproduzione, la chiusura, lo stereotipo e la burocrazia saranno i suoi nemici.
Nel lavoro a Mantova una serie di resistenze e stereotipi degli operatori sono stati affrontati ed elaborati in equipe per permettere un ascolto il più possibile sgombro. Perdere l’impellenza ad esercitare un controllo, quando esso non è richiesto né utile. Diverso è il problema della gestione del transfert persecutorio dei ragazzi verso le istituzioni. Dall’esplicitazione e messa in discussione della propria idea di tossicodipendenza (per quale motivo sono tossici e se si può fare qualcosa per loro oppure no). Il problema era: agli adolescenti bisogna dare una mano subito o aspettare che manifestino quello che succede loro? Imparare ad aspettare che arrivi qualche risultato, che qualcosa d’importante succeda, che uno spiraglio si apra. Che cosa è veramente importante osservare e come valutiamo il lavoro? Si è trattato in questi anni di aiutare a modificare la mentalità degli operatori troppo aderenti all’inizio all’istituzione d’appartenenza. Abitare un luogo terzo (l’equipe di supervisione e ricerca) ha permesso una diversa organizzazione e concettalizzazione delle pratiche di lavoro.
Nell’esperienza di Bassano si è trattato del “mettersi in relazione” in un programma di prevenzione tra soggetti diversi da quelli abituali (genitori, operatori dei servizi pubblici e insegnanti). Non si è scelta la strada abituale di trasmettere conoscenze da parte d’esperti, ma di mettere insieme saperi differenti alla ricerca di risposte condivisibili e sostenibili. Il percorso non è stato dei più semplici, ma certamente alla ricerca sempre di modi propri e sostenibili di rappresentarsi la problematica del vincolo genitori-figli adolescenti. L’equipe di operatori-insegnanti-genitori ha cominciato a funzionare cercando di costruire  rappresentazioni confrontate e concordate tra attori diversi, a partire dall’esplicitazione delle regole esplicite e implicite che sono in gioco in una famiglia con figli adolescenti.
Si era partiti da una situazione dove tutti erano collegati in modo unilaterale alla problematica, senza che le interazioni tra i soggetti fossero esplicitate e valorizzate. L’urgenza che “le cose con gli adolescenti cambino in fretta” spingeva in un primo momento il gruppo ad uscire dal problema piuttosto che affrontarlo. Il percorso diventava percorribile se, e solo se, tra chi vi prendeva parte, si poteva accettare che ognuno ha parti diverse: “nessuno ha già capito tutto a priori, nessuno sa cosa e come si deve fare, ma ognuno è portatore parziale d’interessi, curiosità, desideri, saperi”. Pian piano si acquisiscono apprendimenti diffusi e condivisi che rendono possibile la ricostruzione di legami familiari e sociali e la ricontestualizzazione dei processi. Assistiamo ai primi passi verso l’interrelazione tra le varie professioni per costruire un’epistemologia convergente.
Il lavoro di prevenzione portato avanti a Marostica ha in qualche modo evidenziato nell’equipe il grande effetto di estraniazione nell’oscillare tra l’analisi della vita quotidiana delle donne e la creatività delle partecipanti attraverso la composizione di poesie. Nella prima parte dell’esperienza l’equipe composta di sole donne sembrava in qualche modo costretta a guardare, paralizzata dall’attacco all’inquadramento dell’esperienza che portavano le partecipanti. Le poesie presentate nella parte informativa, ma soprattutto quelle prodotte dalle partecipanti all’esperienza provocavano in tutti ansia confusionale (perturbante) legata al ritorno del rimosso. Questa situazione scatenava reazioni ostili che si traduceva nei primi incontri in ripetuti attacchi al setting.
Giocarsi l’assenza dei maschi e della loro funzione, ristabiliva un equilibrio nei gruppi.
Nella costruzione dell’apparato concettuale dell’equipe per mettere a fuoco l’esperienza emergevano sogni, come possibilità di affrontare le barriere di resistenza al cambiamento. Nei sogni si osservava l’ansia di introdursi nell’altro trasformata in situazioni claustrofobiche. Il pericolo in quel momento era di portare il processo di cambiamento verso una sintomatologia ipocondriaca. Urgeva l’immaginazione progettuale da parte dell’equipe per contenere i movimenti delle partecipanti. Come dice Aldo Gargani, il pensiero è una paura trasformata.

Un’ultima questione. Deve essere visibile ai vari soggetti che sviluppano il percorso, il punto in cui si è arrivati. Nel campo della prevenzione bisogna rendere visibile quel che si è fatto, ma risulta ancora problematico valutare effetti che toccano le aree del conflitto, della contraddizione e dell’ambivalenza, che connettono livelli di elaborazione tenuti solitamente distinti, che lottano per la rottura degli stereotipi e creano saperi provvisori. Saremo in condizione di attuare in maniera efficace una trasformazione se riusciremo a comprendere gli aspetti gruppali e istituzionali implicati nella gestione del nostro lavoro e che cosa comporta per tutti i membri dell’equipe un cambiamento nella gestione delle proprie risorse o della propria organizzazione, come ci ha insegnato Bleger.


BIBLIOGRAFÍA

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